DON GIUSEPPE CAFASSO, IL SANTO DEI CONDANNATI
Al santuario della Consolata di Torino su una targhetta, fuori dal presbiterio, sulla destra per chi guarda l’altare maggiore, è scritto: «Qui pregava San Giuseppe Cafasso».
San Giuseppe Cafasso, nato a Castelnuovo d’Asti il 15 gennaio 1811, terzo di quattro figli. L’ultima, la sorella Marianna, è la mamma del Beato Giuseppe Allamano, fondatore dei Missionari e delle Missionarie della Consolata. Giuseppe nel 1830-31 entra nel Seminario di Chieri. I 21 settembre 1833 a 22 anni è ordinato nella chiesa dell’arcivescovado di Torino. Al Convitto ecclesiastico di San Francesco d’Assisi è formatore del clero, direttore spirituale di don Bosco, «prete della forca», santo il 22 giugno 1947.
Nella sua vita rifiuta ogni incarico e prebenda, unico prete santo dell’Ottocento che non ha fondato nulla. Lo storico don Giuseppe Tuninetti parla di «modello di sacerdote, impegnato pastoralmente, lontano dalla polemica politica, occupato nelle opere caritative e sociali. Indica una strada di perfezione: non la macerazione ascetica o la preghiera monastica ma una santità raggiungibile attraverso l’apostolato, la liturgia, il contatto con la gente, la carità». Forma i preti della Torino risorgimentale, buoni pastori e validi confessori. Dal 1836 alla morte nel 1860, Cafasso si dedica all’insegnamento. Il suo segreto è essere un uomo di Dio e fare «quello che può tornare a maggior gloria di Dio e a vantaggio delle anime».
Per anni ai preti, nel santuario di Sant’Ignazio in Valle di Lanzo, predica gli esercizi spirituali di 8 giorni. Nelle tre meditazioni e due istruzioni quotidiane illustra l’identità e la vita del prete, la confessione e la predicazione, la santità nel ministero pastorale. Gira il Torinese e l’Astigiano predicando le missioni al popolo sui temi centrali del Cristianesimo, dottrinali – peccato, misericordia, grazia – e pratici: elemosina, bestemmia, perdono del nemico.
Per interessamento di Giulia Colbert Falletti di Barolo e attraverso la Confraternita di San Giovanni decollato (o della Misericordia), don Cafasso dal 1842 assiste i carcerati e i condannati a morte. Tre volte alla settimana va nelle carceri Senatorie dalle 16 a tarda notte. Scrive Tuninetti: «Le condizioni dei reclusi sono terribili: sporchi e legati al muro con una catena, vivono in un ambiente malsano, infestati da parassiti e pidocchi che definiscono “argento vivo e ricchezza mobile” e Cafasso “guadagni del prete”». Buon pastore, comprensivo e compassionevole, il prete gobbo conquista i detenuti, fa del bene, rasserena, tocca i cuori, illumina e scuote le coscienze. Si ammassano detenuti per reati minori, quelli in attesa di giudizio, i peggiori criminali. Si immerge nel degrado, è derubato più volte e insultato ogni giorno. Non demorde; parla della confidenza in Dio, della preghiera, della confessione «incontro con Dio fattosi misericordia infinita»; porta ai detenuti regali e tabacco da fiuto; ottiene che nelle feste sia distribuito pane bianco, companatico e un bicchiere di vino. Invita a trattare i carcerati come «galantuomini», a non chiedere mai la causa della detenzione, a non accettare mai nulla.
Condivide con i condannati le ultime ore; si inginocchia con i morituri nella chiesa del carcere; siede con loro sulla carretta diretta al «rondò della forca»; depone il cadavere nella bara e corre alla chiesa della Misericordia a dire la Messa in suffragio. Accompagna 57 condannati, «i miei santi impiccati». Carlo Demichelis di Ormea, bandito impenitente, accenna un saluto all’immagine della Madonna dipinta su un muro. Cafasso si accorge e chiede spiegazione. Così è stato abituato dalla mamma. Il prete intuisce la possibile redenzione e lo confessa.
Pier Giuseppe Accornero