TORINO, IL COLERA, PELLICO E PORTA PALAZZO
«Eleviam fra le lagrime i cuori, / Sosteniamo gli scossi intelletti! / Siam colpiti, ma non maladetti, / Man paterna è la man del Signor. / Per provarci con prova più forte, / Per destarci a più nobil costanza, / Egli ha detto ad un angiol di morte: / Tue saette raddoppia su lor». Quasi due secoli fa Silvio Pellico compone una poesia in piena epidemia di colera che devasta Torino, il Piemonte, l’Italia e l’Europa.
Il colera è una malattia infettiva con violente scariche diarroiche, vomito, crampi muscolari e collasso cardiocircolatorio, causata dal batterio «Vibrio colera. Nel 1831 il colera dilaga dall’India in Europa, Germania, Olanda, Belgio, Gran Bretagna mietendo vittime.
Quando l’epidemia scoppia in Francia nel 1831, il Ducato di Parma ordina di disinfettare le lettere e i pacchi provenienti da Oltralpe. Re Carlo Alberto ordina alle truppe di stendere un cordone sanitario terrestre da San Remo a Ventimiglia e da Nizza e Cuneo lungo il torrente Roia: ma saranno inefficaci. Chi viola i cordoni sanitari è punito con la morte. Si riorganizza il sistema di lazzaretti. Solo i ricchi con i soldi si potevano curare; i poveri finivano nei lazzaretti senza cure né assistenza.
Il 27 luglio 1835 il cordone sanitario è violato a Nizza da qualche contrabbandiere e l’epidemia si diffonde verso Cuneo e Torino. Nella capitale il primo contagiato, il 24 agosto, è il barcaiolo Luigi Giovanni Summa che muore il 25. Da anni Torino vive nell’incubo del «Colera-morbus». Allestisce quattro lazzaretti, dove portare a morire i colerosi: presso la Dora (240 letti), in Borgo Po (80), all’ospedale San Luigi (40), all’ospedale San Giovanni vecchio (30). Per gli ebrei si organizza un piccolo lazzaretto fuori Porta Segusina a carico della comunità israelitica e con i fondi di una sottoscrizione. Nel 1831-2 l’epidemia infetta la Francia. Per un paio d’anni la capitale del Regno. Nel 1834 il contagio raggiunge Marsiglia e Genova e nel 1835 Torino. Carlo Alberto costituisce una commissione sanitaria guidata dal vicario Michele di Cavour, padre di Camillo, da amministratori comunali e medici. Il vicario ordina di attivare la pulizia della città e in particolare «all’interno delle case, anditi e cortili» delle zone più popolari e povere, Borgo Dora, Borgo Po, Moschino; prescrive una stretta sorveglianza «nella somministrazione di cibi e bevande, con ispezioni alle botteghe dei pizzicagnoli, osti, acetai e lattivendoli»; ordina «che si allontanino dalla città i depositi di spazzatura, che si vigili sui postriboli nei quali esercitano le meretrici, che si trasferisca il mercato» di piazza delle Erbe (Palazzo di Città): nasce così il grande mercato di Porta Palazzo, il più esteso d’Europa. Secondo i dati del Comune di Torino ci sono 220 morti su 349 contagiati. Le vittime tra camerieri, domestici, lavandai, spazzini, artigiani, piccoli commercianti, contadini, militari, medici, infermieri, sacerdoti
Il Municipio di Torino invoca la Consolata e fa voto di erigere una statua sulla piazza del santuario. I torinesi pregano anche la Madonna della salute, nel santuario eretto in Borgo Vittoria. «Madonna della salute» per la salvezza della Patria ma anche per la «salute degli infermi»: così la invocano nell’epidemia del 1835, che ritorna attenuata nel 1884. Allo scoppio del colera il marchese Carlo Tancredi Falletti di Barolo organizza i soccorsi; apre la sua villa di Moncalieri agli orfani e ai bimbi rachitici. Per riprendersi dagli acciacchi e dalle fatiche, va con la moglie Giulia verso il Tirolo e il 4 settembre 1838 muore.
Silvio Pellico, segretario di Giulia, nelle «Memorie» annota: «Nella pianura lombarda assolata dagli ultimi calori estivi una carrozza porta un malato, sua moglie e un medico. All’improvviso la tragedia. Avevano fatto poca strada quando arrivando a Chiari nel Bresciano, lo credevano addormentato ed ebbero l’orribile sorpresa d’accorgersi che non era sonno, né svenimento, ma vera agonia. Fermarono la carrozza alla casa del parroco, ebbe l’Olio santo e spirò nelle braccia della desolatissima moglie».
Pier Giuseppe Accornero (sunto)